Ero al mare quel sabato 10 luglio 1976, quando sentii la notizia
della nube tossica. Avevo solo sette anni e mi sembrava impossibile
che un veleno potesse arrivare dal cielo, sotto forma di una nuvola.
Cosa è successo in nella zona di Seveso e cosa ha provocato
il disastro?
1945. Una nuova industria chimica nasce sul territorio.
Il 29 novembre 1945 l´ICMESA (Industrie Chimiche Meridionali
S.A. con uffici e direzione a Milano) presentò al Corpo del
Genio Civile di Milano domanda per l´autorizzazione a costruire
un nuovo stabilimento per la produzione di farmaceutici in un terreno
di sua proprietà ubicato nel territorio del Comune di Meda.
L´ICMESA non era un´impresa di nuova costituzione. Le
sue origini risalivano infatti al 1924 quando la società
Industrie Chimiche K. Benger e C.S.A. (già Industrie Chimiche
Meridionali K. Benger e C.) mutò la sua ragione sociale in
quella di Industrie Chimiche Meridionali S.A. ICMESA. La sede e
lo stabilimento della fabbrica erano a Napoli e l´attività
si fondava sulla fabbricazione e sul commercio di prodotti aromatici
sintetici, di prodotti intermedi (per l´industria farmaceutica
e per quella dei coloranti organici) e di prodotti di base per l´industria
chimica.
Nel 1947 l´assemblea degli azionisti, pur mantenendo la sede
sociale a Milano, deliberò di modificare la denominazione
della società, trasformandola in ICMESA S.A., Industrie Chimiche
Meda, Società Azionaria. Sempre nel 1947, terminati i lavori
di costruzione della fabbrica, l´ICMESA iniziò concretamente
la propria attività a Meda.
Gli anni cinquanta e sessanta videro le dimensioni della fabbrica
ampliarsi costantemente. La Givaudan & C. di Vernier-Ginevra
rimase sempre la principale azionista della società.
Nel 1963 la multinazionale Hoffman-La Roche, con sede a Basilea,
acquistò la L. Givaudan & C. e conseguentemente, prima
attraverso la Givaudan e poi figurando in prima persona fra gli
azionisti, divenne proprietaria dell´ICMESA.
1948-1976. Una fabbrica e l'abitudine ai suoi veleni.
Già dal 1948 l´ICMESA aveva sollevato le proteste della
popolazione di Seveso in merito ai gas e agli odori provenienti
dal torrente Certesa (o Tarò) che erano da attribuirsi anche
agli scarichi della fabbrica di Meda.
L´anno successivo il Consiglio Comunale di Seveso si occupò
della questione delle acque che venivano immesse nel torrente non
convenientemente depurate da parte dell´ICMESA e che diffondevano
"odori nauseabondi ed insopportabili nell´atmosfera".
I consiglieri rilevarono le continue lamentele della cittadinanza
e le fecero proprie poiché in talune zone del territorio
comunale l´aria diventava "assolutamente irrespirabile
per le esalazioni provenienti dalle acque di deflusso dello stabilimento
della società ICMESA di Meda".
Per questo il Consiglio Comunale invitò il sindaco ad accertare
la nocività dei gas emanati dall´ICMESA e, di concerto
con il collega di Meda, ad attivarsi per inoltrare una protesta
alle "superiori autorità" al fine di obbligare
la società ad eseguire quelle opere che si rendevano necessarie
per eliminare i gravi inconvenienti igienici rilevati.
Dopo pochi anni, il 2 maggio 1953, l´ufficio veterinario del
Comune di Seveso accertò un´intossicazione di pecore
a causa degli scarichi dell´ICMESA. Recatosi alla fabbrica
"anche allo scopo di avere elementi necessari sui quali indirizzare
la cura delle pecore colpite e non ancora decedute", il veterinario
consorziale Malgarini non ottenne alcun chiarimento in merito, per
la "reticenza" del rappresentante dello stabilimento di
Meda.
Un paio di mesi dopo, il 1° luglio 1953, l´ufficiale sanitario
Del Campo, comunicò al sindaco del Comune di Meda che "un
increscioso episodio tossico con la morte di 13 pecore" si
era verificato nel torrente Certesa "subito a valle dello scarico
delle acque di rifiuto della fabbrica ICMESA". Nella sua relazione
l´ufficiale sanitario, dopo aver evidenziato che l´ICMESA
produceva prodotti delle serie "acetati, salicitati e alcoli",
appurò la nocività delle acque del Certesa, causata
dallo scarico della fabbrica. Per queste ragioni Del Campo ritenne
che ci fossero "tutti gli estremi" per qualificare la
fabbrica di Meda come "Industria Insalubre".
Dopo pochi giorni, il 7 luglio 1953, l´ICMESA, con una lunga
nota a firma dell´amministratore delegato Rezzonico, affermò
di non trovarsi d´accordo con quanto asserito dall´ufficiale
sanitario e respinse la responsabilità della morte delle
13 pecore. La società poi non accettò la possibilità
di essere classificata come "Industria Insalubre" ed evidenziò
il fatto che anche le acque a monte dello stabilimento emanavano
esalazioni moleste.
L´ICMESA si impegnò infine a migliorare gli strumenti
per l´eliminazione di odori e rumori molesti sperando che
l´episodio non alimentasse intorno allo stabilimento ed alla
sua attività "quell´atmosfera di diffidenza e
di critica" che, sempre secondo la direzione aziendale, non
trovava nessuna ragione nei fatti "visti obbiettivamente e
serenamente".
Il 28 agosto 1953 l´ICMESA ribadì le proprie posizioni
considerando altresì "assurde" le accuse mosse
a un´industria che lavorava "onestamente ed in condizione
di ambiente e di sanità fra le più moderne d´Italia".
Alcuni anni dopo, il 2 maggio 1962, il sindaco di Meda, Dozio, che
il 5 aprile precedente aveva chiesto alla società di essere
informato sull´evolversi della situazione degli scarichi industriali,
avvertì l´ICMESA che nell´ultima seduta del Consiglio
Comunale alcuni consiglieri avevano rilevato che molto spesso a
settentrione dello stabilimento si sviluppavano incendi di materiali
di rifiuto che provocavano "nubi fumogene irrespirabili"
dannose per la salute pubblica.
Il sindaco invitò la ditta ad adottare le necessarie cautele
nel bruciare i rifiuti per evitare gli inconvenienti igienici lamentati
dalla popolazione.
Il 14 maggio 1962 l´ICMESA, ancora una volta, rigettò
le accuse limitando l´episodio ad un solo incendio, sviluppatosi
per ragioni ignote e prontamente spento dopo tre quarti d´ora.
Comunque la società assicurò il massimo delle precauzioni
per evitare altri inconvenienti del genere.
Dopo quasi un anno, il 7 maggio 1963, il sindaco di Meda chiamò
nuovamente in causa l´ICMESA in merito ad un nuovo incendio
di scorie e rifiuti di lavorazioni abbandonati sul terreno, non
recintato, di proprietà della società sottolineando
il panico originato nella popolazione e il grave pericolo per la
ferrovia e la viabilità. L´ICMESA venne altresì
invitata a provvedere per evitare nuovi episodi di quel genere e
le fu ricordato che le scorie e i rifiuti non andavano abbandonati
sul terreno, ma "distrutti con procedimenti tali da salvaguardare
l´incolumità pubblica o privata".
L´11 maggio 1963 la nuova replica dell´ICMESA scaricò
la responsabilità di questo secondo incendio su dei pastori
che si erano fermati nei pressi dello stabilimento e, dopo aver
acceso un fuoco, erano scappati. La società assicurò
che avrebbe provveduto con maggiore frequenza che non nel passato
a ricoprire le scorie con della terra di riporto, per evitare il
ripetersi dell´inconveniente. Infine l´ICMESA evidenziò
che la località era comunque isolata e sufficientemente distanziata
tanto dalla parte della ferrovia che da quella dello stabilimento
e che pertanto non potevano esserci preoccupazioni per la popolazione.
Su sollecito del sindaco, il 25 maggio 1963 l´ICMESA si impegnò
anche alla recinzione del deposito delle scorie a nord dello stabilimento.
Il problema dell´inquinamento del torrente Tarò fu
sempre al centro dell´attenzione della Provincia in quanto,
nuovamente nel 1965, le analisi effettuate rilevarono la non accettabilità
delle acque sia dal punto di vista chimico, perché altamente
inquinate, sia dal punto di vista biologico giacché definite
"tossiche ad alta tossicità". Necessitava dunque
un miglioramento dell´impianto di depurazione che fu imposto
all´ICMESA nel novembre del 1965. Un sopralluogo effettuato
nel 1966 appurò che, nonostante le modifiche apportate, l´impianto
continuava a non dare risultati soddisfacenti.
Il 18 ottobre 1969 pervenne al Comune di Meda l´ennesima relazione
del Laboratorio di igiene e profilassi della Provincia:
"Ripetuti sopralluoghi effettuati sia all´interno che
all´esterno dello stabilimento Icmesa di Meda, portano a concludere
che la situazione degli scarichi della ditta in oggetto va rivista
alla luce di risultanze e accertamenti nuovi, più gravi e
più complessi di quelli finora presi in considerazione, in
quanto gli inquinamenti dovuti alle sue lavorazioni non sono limitati
agli affluenti idrici, e quindi di natura primaria e immediata,
ma si estendono e si moltiplicano con gli inconvenienti che possono
derivare dalle sconosciute evacuazioni, in bacini perdenti esterni
allo stabilimento, di sostanze solide, mucillaginose e liquide di
natura diversa e imprecisata e dalla combustione in campo aperto,
primitiva e incontrollata di prodotti di varia natura [
].
Tali operazioni, in aggiunta ai molteplici odori nauseabondi, insistenti
e persistenti, che investono un raggio di alcune centinaia di metri
e si accompagnano pervicacemente ai sensi e agli indumenti del visitatore
per alcuni giorni, rappresentano infatti un pericolo continuo e
costante per le falde acquifere e per lo stesso torrente Tarò
che scorre a poche decine di metri [
]. E´ pertanto con
viva preoccupazione che questo Laboratorio segnala una tal situazione,
stigmatizzando l´assoluta mancanza di cautele e previdenze
che la ditta aveva ed ha il dovere di osservare in ossequio al bene
pubblico e ad un elementare buon senso. Brutture del genere, accertabili
e visibili per gli occhi di tutti, non possono essere tollerate,
né le ditta può pretendere che il tempo passi e la
natura provveda.
Il 18 dicembre 1969 l´ufficiale sanitario Sergi, facendo riferimento
al rapporto del 18 ottobre, affermò che l´ICMESA rappresentava
"una notevole grave sorgente per l´inquinamento"
sia liquido che gassoso. Sergi asserì inoltre che "l´azione
malefica di tale inquinamento" non si limitava alla zona circostante
lo stabilimento, ma attraverso la falda acquifera superficiale,
l´atmosfera e a mezzo del torrente Tarò, questa si
estendeva "a zone anche lontane dalla sorgente inquinante".
"Data la gravità delle risultanze premenzionate"
l´ufficiale sanitario chiese al sindaco di Meda di emettere
un´ordinanza "ai sensi dell´art. 217 del T.U.LL.SS.
27.7.1934, n. 1265" con la quale si doveva imporre all´ICMESA
"l´adozione di provvedimenti efficaci, stabili e continuativi,
atti a rimuovere (o almeno a ridurre al minimo tollerabile) i molteplici
inconvenienti constatati".
All´inizio del 1974 l´ICMESA assicurò nuovamente
la Provincia di Milano e l´Ufficio del Genio Civile rispetto
all´imminente inizio dei lavori per la realizzazione del nuovo
impianto di depurazione delle acque, che però di fatto non
si avviarono mai, come testimonia una nuova analisi effettuata dalla
Provincia il 2 dicembre 1974 che giunse alle seguenti conclusioni:
"Le acque usate che la ICMESA immette nel Tarò sono
inquinate dal lato chimico ed a tossicità altissima estrema
da quello ittico-tossicologico. Sono urgenti pertanto specifici
ed efficienti lavori di bonifica. La ditta inoltre deve provvedere
a dare una sistemazione più confacente ai fanghi che, attualmente,
per percolazione, possono inquinare le falde sotterranee".
Alla fine del 1974 il direttore tecnico dell´ICMESA, Herwig
Von Zwehl, fu denunciato alla magistratura per "avere con più
azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso corroso ed adulterato
acque sotterranee destinate alla alimentazione prima che le stesse
fossero attinte, rendendole pericolose per la salute pubblica, tramite
lo scarico di fanghi in una pozza perdente."
Il 5 settembre 1975, a seguito di un nuovo sopralluogo, la Provincia
confermò le accuse di inquinamento delle acque sotterranee
nei confronti della fabbrica di Meda. Nonostante il rapporto della
Provincia, il 15 giugno 1976 Herwig Von Zwehl fu assolto per "insufficienza
di prova".
10 luglio 1976, sabato. A Seveso c'era il sole.
Era una domenica pomeriggio. L´11 luglio 1976. Il sindaco di
Seveso, Francesco Rocca, ricevette la visita di due tecnici dell´ICMESA.
I due tecnici gli riferirono di un incidente successo il 10 luglio
all´interno della fabbrica. Ricorda Rocca:
La descrizione fu breve, più che altro tecnica, di ciò
che era avvenuto. Per la prima volta sentii parlare di "triclorofenolo",
il tcf. "E´ un prodotto chimico intermedio di base"
mi spiegò subito il dr. Paoletti. "Lo può trovare
anche dal droghiere, serve anche per i diserbanti. E proprio il reattore
che lo produce è scoppiato. Non si sa bene perché. Ieri
mattina alle sei è cessato il turno e come ogni sabato hanno
lasciato raffreddare il reattore. Domani la produzione di tcf sarebbe
ripresa regolarmente, se non fosse avvenuta questa reazione incontrollata
all´interno, che lentamente ha fatto alzare la temperatura e
la pressione, finché poco dopo mezzogiorno è avvenuto
lo scoppio".
Il 12 luglio 1976 la direzione della fabbrica scrisse all´ufficiale
sanitario supplente dottor Uberti, che sostituiva il titolare, professor
Ghetti, in ferie:
Facendo riferimento alle precedenti informazioni e colloqui e alla
vostra visita odierna, vi confermiamo quanto segue:
Sabato 10 luglio 76 alle ore 12.40 ca. si è verificato all´interno
del nostro Stabilimento un incidente.
Vi precisiamo che la fabbrica era ferma per la normale giornata
di sosta del sabato con la presenza soltanto di personale di manutenzione
e lavori vari, che non interessavano il reparto in questione.
Le cause dell´incidente sono tuttora all´esame e al
vaglio. Per ora possiamo supporre che la dinamica dei fatti sia
avvenuta per una inspiegabile reazione chimica esotermica in un
reattore lasciato in una fase di raffreddamento. Nel reattore si
trovavano le materie seguenti: tetraclorobenzolo, etilenglicole
e soda caustica che portano alla formazione di triclorofenolo grezzo.
Alla fine del normale orario di lavoro (alle ore 06.00 del sabato)
il reattore è stato lasciato fermo senza agitazione e riscaldamento,
come di consueto, contenente il prodotto grezzo.
Non sappiamo cosa possa essere successo fino alle ore 12.40, momento
in cui si è rotto il disco di sicurezza, lasciando fuoriuscire
una nube di vapori che, dopo aver investito le piante all´interno
del nostro Stabilimento, si è diretta verso sud-est, spinta
dal vento e dissolvendosi nel giro di breve tempo. Non essendo in
grado di valutare le sostanze trascinate da questi vapori ed il
loro esatto effetto, abbiamo provveduto ad intervenire presso i
vicini per impedire il consumo di eventuali prodotti d´orto,
sapendo che il prodotto finito viene anche impiegato in sostanze
erbicide. Per il momento abbiamo sospeso questa lavorazione, concentrando
le nostre ricerche nella spiegazione di quanto accaduto, per evitare
casi analoghi nel futuro.
Il direttore tecnico della Givaudan, dottor Sambeth, avuta notizia
dell´incidente il successivo 11 luglio alle ore 11.45, ipotizzò
la possibilità che si fosse prodotta TCDD.
La certezza scientifica della fuoriuscita di TCDD fu confermata
il 14 luglio dalle analisi compiute nel laboratorio della Givaudan
a Duebendorf (Zurigo) su materiale prelevato nell´ambiente
circostante l´ICMESA. Anche dopo la conferma dei sospetti
iniziali, sia i responsabili dell´ICMESA che quelli della
Givaudan non dettero alcuna comunicazione della circostanza alle
autorità italiane. Solo otto giorni dopo, il 18 luglio, allorché
il direttore del Laboratorio chimico provinciale di Milano prospettò
ai responsabili della fabbrica di Meda la possibilità della
presenza di diossina, fu preannunciato l´arrivo in Italia
del direttore del Laboratorio della Givaudan e solamente il 19 luglio
1976, l´ICMESA e la Givaudan si decisero ad ammettere la gravità
della situazione, dichiarando ufficialmente la presenza di tetraclorodibenzo-para-diossina
tra le altre sostanze altamente tossiche. Invece soltanto il 21
luglio 1976 il direttore del Laboratorio provinciale di igiene e
profilassi, Cavallaro, e l´ufficiale sanitario di Seveso,
Ghetti, dai Laboratori Givaudan di Duebendorf, confermarono al sindaco
di Seveso la presenza di diossina nella nube tossica fuoriuscita
il 10 luglio.
Nei "giorni del silenzio", ovvero nei cinque giorni che
passarono tra la fuoriuscita della nube ed i primi provvedimenti
presi dai sindaci di Seveso e di Meda, si delineò con maggiore
precisione la dinamica dell´incidente. I carabinieri di Meda
infatti, nell´ambito dell´attività di polizia
giudiziaria, confermarono che la nube si era formata a causa della
rottura del disco di sicurezza del reattore "A 101" e
ciò per effetto di una reazione chimica esotermica. La rottura
del disco causò lo scarico violento di particelle di vapori
di glicole e di particelle varie, attraverso il tubo di sfiato.
La diffusione di particelle avvenne essenzialmente nei primi istanti
e, complessivamente, durante le tre fasi dell´incidente fuoriuscirono
circa 400 kg di prodotti di reazione e reattivi. La nube tossica
comprendeva tra l´altro triclorofenolo, soda caustica e il
3,5% di diossina, pari quindi a 14 kg. Lo scarico fu trascinato
dal vento che lo portò con sé lungo il suo percorso
in direzione sud, sud-est. Come rilevato dalle stazioni meteorologiche
di Carate Brianza e Como, quando avvenne l´incidente, il vento
soffiava alla velocità di circa 5m/s.
Ancora il 18 luglio, quando il sindaco di Meda ordinò a scopo
cautelativo la chiusura della fabbrica, la direzione cercò
di assicurare le autorità sostenendo la non pericolosità
dello svolgimento dell´attività lavorativa.
15 luglio 1976, giovedì. I primi provvedimenti.
Dopo le prime verifiche effettuate il 12 luglio, nel corso delle
quali l´ufficiale sanitario supplente non aveva rilevato alcun
danno alle persone ma solo la bruciatura delle piante investite
dalla nube, il 15 luglio Uberti accertò i numerosi casi di
intossicazione e raccomandò alle autorità di prendere
urgentemente "immediati provvedimenti per tutelare la salute
della popolazione". I sindaci dei due comuni dovevano:
Delimitare la zona con paletti recanti come testo la seguente dicitura:
"Comuni di Seveso e Meda. Attenzione. Zona infestata da sostanze
tossiche. Divieto toccare o ingerire prodotti ortofrutticoli, evitando
contatti con vegetazione, terra ed erbe in genere".
Avvisare, mediante manifesto la popolazione di non toccare assolutamente
né ortaggi, né terra, né erba, né animali
della zona delimitata e di mantenere la più scrupolosa igiene
delle mani e dei vestiti, usando l´acqua come migliore detergente.
In attesa di ulteriori comunicazioni "da parte dei laboratori
della ditta ICMESA", su come agire e sulle eventuali norme
di profilassi da prescrivere, l´ufficiale sanitario supplente
si riservava di ordinare l´evacuazione della zona interessata.
Lo stesso giorno della comunicazione di Uberti, i sindaci di Seveso
e Meda dichiararono la zona del quartiere di San Pietro limitrofa
all´ICMESA infestata da sostanze tossiche e, recependo quanto
prescritto dall´ufficiale sanitario, vietarono alla popolazione
di toccare ortaggi, terra, erba e animali della zona delimitata
e prescrissero di mantenere la più scrupolosa igiene delle
mani e dei vestiti.
17 luglio 1976, sabato. Dopo 'la settimana del silenzio' l'incidente
diventa notizia.
Intanto, la notizia della fuoriuscita della nube tossica stava
diventando di dominio pubblico. Rocca infatti, il 15 luglio, si
era premurato, di informare il cronista de "Il Giorno"
Mario Galimberti e il 17 luglio il quotidiano milanese pubblicò
un articolo nella pagina della cronaca della provincia. Lo stesso
giorno anche sul "Corriere della Sera" apparve una breve
nota che riportava i primi dettagli dell´incidente.
Dopo la chiusura dell´ICMESA, avvenuta il 18 luglio, il giorno
successivo il sindaco di Meda ordinò la chiusura a scopo
cautelativo e provvisorio della ditta C.R.C.-Encol, sita nelle vicinanze
della fabbrica chimica, mentre il sindaco di Seveso ordinò
alla popolazione di non ingerire prodotti di origine animale provenienti
dalla zona inquinata o comunque sospetti di inquinamento.
Il 22 luglio, mentre si aggravava la situazione con il progressivo
instaurarsi di fenomeni patologici e l´intensa moria di animali,
si iniziò il censimento degli animali della zona inquinata.
Fu inoltre deciso di inviare 80 bambini in colonia e fu aperto a
Seveso un ambulatorio con personale messo a disposizione dalla Clinica
dermatologica dell´Università di Milano. Anche il giorno
successivo fu dedicato all´organizzazione delle strutture
sanitarie di verifica e controllo della situazione con l´affidamento
all´Istituto di fitopatologia del controllo sulla vegetazione
per delimitare la zona inquinata e l´affidamento al veterinario
regionale degli esami sugli animali morti. Venne altresì
assegnato al professor Ghetti il Laboratorio clinico aperto a Seveso
e il Laboratorio di igiene e profilassi della provincia fu incaricato
di effettuare gli esami necessari per conoscere con sicurezza gli
aspetti chimici della contaminazione.
Le prime ammissioni.
Il 23 luglio infine, dopo una riunione a Lugano, sulla base degli
ultimi risultati delle analisi sulla contaminazione della zona e
visti anche i rapporti relativi ad altri incidenti accaduti in precedenza
in Inghilterra e in Germania, i responsabili dell´ICMESA,
d´accordo con il dottor Vaterlaus, capo dei Laboratori di
ricerca Givaudan, presentarono all´ufficiale sanitario le
loro conclusioni e raccomandazioni, dove evidenziarono quanto segue:
La quantità a cui le popolazioni di Meda e Seveso hanno potuto
essere esposte appaiono inferiori rispetto ai casi d´intossicazione
conosciuti negli altri incidenti sopravvenuti in altri casi.
I sintomi clinici di cui abbiamo conoscenza delle persone ricoverate
in ospedale a Niguarda e Mariano Comense corrispondono esattamente
piuttosto a degli effetti moderati, paragonati ai sintomi clinici
osservati negli altri casi d´incidente citati. [
]
Ricordiamo che il programma delle analisi è stato avviato
subito dopo l´incidente ed ha indicato, nell´immediata
prossimità del luogo ove l´incidente si è verificato,
una certa contaminazione. Vista la complessità della procedura
di analisi, un discreto lasso di tempo è tuttavia intercorso
tra il prelevamento dei campioni e l´ottenimento dei risultati.
L´informazione che abbiamo potuto ottenere sullo sviluppo
e il seguito degli incidenti precedenti del genere, indica inoltre
che i contatti diretti della sostanza tossica sulla pelle possono
comportare pericoli.
Dopo aver esposto le proprie conclusioni, "nell´intenzione
di evitare tutte le possibilità di contatto" che potevano
ancora esistere nella zona e al fine di "consentire l´esecuzione
dei programmi di decontaminazione", l´ICMESA propose
di adottare misure precauzionali che prevedevano "l´evacuazione
temporanea della zona interessata e delimitata sulla planimetria
allegata (punti di misura rossi e blu)" finché ulteriori
studi non permettessero "senza alcun ragionevole dubbio la
reintegrazione delle abitazioni". I residenti della zona da
evacuare dovevano inoltre evitare "di portare con sé
tutti gli oggetti personali, specialmente i vestiti", di cui
si presumeva "la possibilità di contaminazione".
Sempre secondo l´ICMESA, le autorità avrebbero dovuto,
da una parte assicurare un rigoroso controllo affinché nessun
prodotto vegetale venisse consumato "sia dagli uomini che dagli
animali domestici", dall´altra "mantenere un programma
di sorveglianza medica sulle persone ricoverate nel corso di molti
mesi" e "adottare un programma di controllo medico della
popolazione" che avrebbe potuto entrare in contatto con la
zona di contaminazione, anche se non si era manifestato alcun sintomo
visibile.
26 luglio 1976, lunedì. La prima evacuazione. Nasce la
'Zona A'.
Solo venerdì 24 luglio, quattordici giorni dopo la fuoriuscita
della nube tossica, la verifica incrociata delle analisi effettuate
dalle strutture sanitarie italiane con quelle dei Laboratori Givaudan
confermò una presenza notevole di TCDD nella zona maggiormente
colpita dalla nube tossica. L´area fu estesa, con inizio dalla
fabbrica, verso sud per una superficie di circa 15 ettari e per
una profondità di circa 750 metri. Inoltre si decise di evacuare
la popolazione, di recintare la zona e vietarne l´accesso.
Nacque così la Zona "A".
Con le ordinanze numero 48 e numero 6 del 24 luglio, i sindaci di
Seveso e di Meda imposero, entro il successivo lunedì 26
luglio, l´evacuazione dalla zona inquinata con conseguente
trasferimento delle famiglie interessate per il periodo strettamente
necessario per effettuare le operazioni di bonifica. Rocca e Malgrati
vietarono altresì di asportare dalle abitazioni utensili
di qualsiasi genere e di portare con sé animali da cortile
alla cui alimentazione avrebbe provveduto il personale degli uffici
veterinari.
Domenica 25 luglio uscì un lungo comunicato dei Comuni di
Seveso e Meda:
Cari Cittadini, l´esplosione all´ICMESA ha prodotto
e diffuso nell´aria una sostanza pericolosa che si chiama
TETRACLORODIBENZODIOXINA. E´ risultata particolarmente colpita
la zona compresa tra le vie Certosa e Vignazzola (MEDA) - C. Porta
- De Amicis - Fogazzaro - T. Grossi (SEVESO) che deve essere bonificata.
Per poterlo fare, senza creare pericoli per la salute della popolazione
che vi risiede, è necessario sfollare temporaneamente le
case, le fabbriche, i campi. La durata di questo provvedimento,
che sarà attuato lunedì 26 c.m., sarà strettamente
limitata al periodo necessario per la bonifica. Il Comune, con la
collaborazione della Provincia, della Regione e dello Stato, ha
organizzato una serie di servizi tra i quali l´ospitalità
gratuita in un albergo. I bambini fino ai 14 anni potranno usufruire
di un soggiorno vacanza presso l´istituto di CANNOBBIO sul
Lago Maggiore; per il trasferimento rimangono valide le disposizioni
già date dai rappresentanti del Comune (il ritrovo è
fissato a Seveso in Via Adua lunedì mattina alle ore 8).
Potrete in ogni momento rivolgerVi in Comune dove funziona anche
oggi, domenica 25 LUGLIO un apposito servizio fino alle ore 18.
Potete portare con Voi gli indumenti necessari, che dovrete però
scegliere fra quelli che non erano esposti all´aria il giorno
10 LUGLIO alle ore 12.40 quando è successo l´incidente
e che non siano stati usati successivamente. L´Amministrazione
Comunale ha disposto di versare ad ogni capo-famiglia la somma di
L. 100.000.= e di L. 50.000.= per ogni familiare a carico. La zona
verrà recintata e tenuta sotto controllo dalle autorità
sanitarie e nella terra saranno avviate immediatamente le operazioni
di bonifica. La sorveglianza per evitare furti sarà svolta
dalle forze dell´ordine. Dalla stessa zona non potranno essere
portati fuori oggetti di casa, utensili di vario genere ecc. Dovranno
anche essere lasciati in zona gli animali da cortile, i cani ecc.
all´alimentazione dei quali provvederanno i servizi veterinari
pubblici. Ogni abitante di questa zona deve sottoporsi immediatamente
a visita sanitaria recandosi presso l´Ambulatorio aperto appositamente
presso le Scuole Medie di Via A. De Gasperi a Seveso. Qualora vi
allontaniate dalla Vostra casa per viaggi o vacanze siete pregati
di passare prima presso l´Ambulatorio per la visita e per
avere le indicazioni mediche necessarie. Per qualsiasi esigenza
potete rivolgerVi presso l´Ufficio Sanitario istituito presso
le Scuole Medie di Via De Gasperi in Seveso oppure presso il Comune
che resta a Vostra totale disposizione.
L'evacuazione si estende.
Lunedì 26 luglio, a cura dei due Comuni e con la collaborazione
delle forze dell´ordine, furono allontanate 213 persone (176
di Seveso e 37 di Meda) e collocate prevalentemente presso l´albergo
"Leonardo da Vinci" di Milano-Bruzzano. Scrisse il "Corriere
della Sera":
Duecento persone sono da ieri mattina dietro il filo spinato steso
attorno al quartiere San Pietro dai soldati del 3° artiglieria
a cavallo. L´autocolonna militare è arrivata davanti
al municipio di Seveso alle otto e mezzo di mattina. Guidati dai
tecnici del comune i soldati hanno raggiunto quella che sulle carte
è segnata come zona A, un´area di 15 ettari che risulta
essere quella maggiormente contaminata. Sotto una pioggia battente
gli uomini hanno iniziato a stendere i reticolati doppi di filo
spinato, piazzato i cavalli di frisia per sbarrare le vie di accesso
al quartiere, piantato nel terreno i paletti di recinzione.
Il giorno dopo il Comune di Seveso si trovò costretto, a
causa "dell´aggravarsi della situazione", a provvedere
all´evacuazione di altre 19 persone, di cui 3 bambini, prontamente
inviati presso la colonia medico-psico-pedagogica di Cannobbio.
Nel frattempo venne prevista l´evacuazione di altri 114 nuclei
familiari, corrispondenti a 398 persone, di cui 86 bambini. I risultati
degli ulteriori esami di laboratorio avevano infatti consigliato
alle autorità sanitarie regionali di ampliare la Zona "A",
la cui profondità fu portata a circa 1600 metri.
Nei giorni successivi le analisi indussero ad un secondo ampliamento
della Zona "A", con un aumento della profondità
a 2200 metri. Anche questo allargamento comportò la decisione
di procedere ad una ulteriore evacuazione. Complessivamente furono
allontanate 736 persone (676 di Seveso e 60 di Meda) per un totale
di 204 famiglie e la zona evacuata e recintata interessò
una superficie di 108 ettari, con uno sviluppo perimetrale di 6
chilometri. Una azienda agricola, 37 imprese artigiane, 10 esercizi
commerciali e 3 industrie furono costrette a sospendere l´attività
per un totale di 252 addetti.
Il primo bilancio relativo agli animali morti, abbattuti o usati
per esperimenti ammontò a 2.953. La moria di animali fu continua
e comprese non solo gli animali domestici. Furono trovati morti
nei campi anche fagiani, quaglie, lucherini, cardellini, rondini
e passeri. Ricorda Angelo C. che abitava nella zona:
"Non ho più visto rondini e quando non si vedono più
rondini è brutta, perché è veramente successo
qualcosa e quando è venuta fuori la diossina di rondini non
se ne sono viste più, sparite tutte".
Un brigadiere della polizia zoofila di Milano affermò che
tra gli animali domestici i cani e i gatti erano quelli che facevano
la fine più impressionante: o si spegnevano adagio perdendo
lentamente le forze, oppure sembravano impazzire. I gatti miagolavano
in continuazione, i cani diventavano aggressivi, nervosi, inavvicinabili.
La Mappatura dei divieti.
Nei giorni seguenti la mappatura "ufficiale" della
zona assunse la sua conformazione definitiva, con l´indicazione
di una zona a minor tasso di inquinamento (Zona "B") che
interessò anche i Comuni di Cesano Maderno e Desio per una
superficie di 269,4 ettari con uno sviluppo perimetrale di 16,5
chilometri e una terza zona (Zona "R" o "di Rispetto"
) non inquinata o inquinata con valori inferiori ai 5µg/m²
che interessò una superficie di 1430 ettari con uno sviluppo
perimetrale di 26 chilometri.
La mappatura della zona fu elaborata in prima stesura il 10 agosto
dalla Commissione tecnico-scientifica statale e definitivamente
approvata dal Consiglio regionale lombardo il 7 ottobre 1976.
Nel mese di agosto i sindaci di Seveso e Meda emanarono una nuova
serie di prescrizioni per gli abitanti delle zone "A"
(evacuati), "B" e "di Rispetto".
In particolare il sindaco di Seveso il 24 agosto, mentre limitò
l´accesso alla Zona "A" "esclusivamente su
autorizzazione", vietò per la Zona "B" ogni
lavorazione che provocasse "movimento di terreno e sollevamento
di polvere" e qualunque manipolazione dei materiali che giacevano
all´aperto al momento dell´incidente. La velocità
dei veicoli sulle strade non asfaltate non doveva superare i 30
km/h, era proibito "coltivare o raccogliere foraggio, erba,
fiori, frutta, verdura, ortaggi, nonché allevare animali
tranne quelli di affezione" e dovevano essere distrutti "tutti
i prodotti zootecnici di origine animale (latte, uova, miele, ecc.)".
Nella Zona "B" fu infine vietata ogni attività
artigianale ed industriale.
Oltre ai divieti enunciati, il sindaco invitò la popolazione
della Zona "B" ad osservare accuratamente una serie di
indicazioni come "lavare immediatamente ed a lungo le mani"
qualora si fossero toccati oggetti presumibilmente inquinati e "comunque
lavarle frequentemente durante la giornata per eliminare ogni traccia
di sostanza tossica eventualmente presente, sia pure in piccole
quantità nella polvere". Venne poi consigliata una frequente
ed accurata pulizia di tutto il corpo (bagno o doccia tutti i giorni)
con l´uso di sapone. Fu invece scoraggiata l´esposizione
alla luce solare per periodi prolungati e fu definita "altamente
pericolosa" l´ingestione di qualunque alimento animale
o vegetale proveniente dalle zone inquinate. Infine era prudente
che "tutte le persone esposte al rischio della contaminazione"
si astenessero dalla procreazione per un periodo di tempo che "cautelativamente"
poteva essere indicato in sei mesi. Non si poteva escludere infatti,
"anche se non era ancora dimostrata per la specie umana",
la comparsa di malformazioni nei figli concepiti da persone esposte
a diossina.
Allo scopo di mettere a disposizione delle persone interessate tutte
le informazioni necessarie il sindaco ricordò la presenza
del Consultorio familiare, aperto a Seveso tutti i giorni dal lunedì
al venerdì presso le scuole medie.
Per gli abitanti della Zona "di Rispetto", con l´ordinanza
del 24 agosto, Rocca riconfermò quanto prescritto il precedente
18 agosto e cioè l´obbligo di intensificazione da parte
della popolazione delle norme di igiene personale, il divieto di
consumare e vendere frutta, verdura e altri vegetali prodotti nella
stessa Zona "di Rispetto" e l´obbligo di abbattimento
di tutti gli animali da cortile con il conseguente divieto di allevamento
degli stessi. Nell´ordinanza il sindaco si premurò
di precisare che la fascia di sicurezza era stata attuata solo per
rafforzare i provvedimenti igienico sanitari. Gli accertamenti eseguiti
non avevano "riscontrato la presenza di diossina" e pertanto
le norme indicate dovevano intendersi solo di carattere cautelativo
e date nell´interesse dei cittadini.
I mesi successivi.
L´11 ottobre 1976 un gruppo di sfollati della Zona "A"
rioccupò pacificamente parte della zona inquinata e bloccò
temporaneamente la superstrada Milano-Meda. I dimostranti chiedevano
alle autorità di bonificare immediatamente il territorio,
di rientrare al più presto nelle abitazioni e di riaprire
al traffico il corso Isonzo, per permettere il collegamento diretto
con il centro di Seveso. Dopo estenuanti trattative, solo a tarda
sera gli occupanti decisero di abbandonare la zona inquinata, con
la promessa da parte delle autorità di aprire subito una
via di comunicazione tra Baruccana e Seveso e di studiare un sistema
con i rappresentanti degli sfollati per bloccare la superstrada
fino a bonifica avvenuta.
Un altro motivo di contrasto tra l´organo regionale e la popolazione
di Seveso fu la scelta di privilegiare, tra le varie ipotesi per
effettuare la bonifica del territorio, la costruzione di un forno
inceneritore per eliminare la diossina. Alla fine di agosto la Regione
aveva chiesto al Comune di Seveso di esprimere un parere in merito
alla collocazione nel territorio sevesino di un impianto di incenerimento
che avrebbe occupato un´area di 36.000 m². Il Consiglio
Comunale, con una sola astensione, determinò di collocare
il forno in una zona ubicata a nord del cimitero.
Questa decisione fu contestata dalla popolazione a tal punto che
il Consiglio Comunale di Seveso, il 14 novembre, decise di abrogare
la propria deliberazione del 29 agosto e di chiedere alla Regione
Lombardia e alla Provincia di Milano di sospendere l´appalto
per la costruzione del forno inceneritore e di accogliere la proposta
di bonifica del "Comitato di coordinamento cittadino".
Quest´ultimo aveva suggerito il metodo dello scarico controllato,
cioè di risolvere il problema con il collocamento del materiale
inquinato in cassoni di cemento armato, stagni, antisismici e totalmente
o parzialmente incassati nel terreno, coperti di terra e di verde.
Secondo la proposta del comitato i cassoni avrebbero dovuto essere
collocati sul terreno dell´ICMESA.
Tutto ciò contribuì ad acuire quel senso di sfiducia
nei confronti della Regione che già era emerso nei primi
giorni dopo l´incidente e che costrinse l´organo regionale
a "rassicurare" gli abitanti di Seveso circa la propria
attività. A novembre apparve sui muri del paese un manifesto
a firma di Golfari, il presidente della Giunta Regionale della Lombardia,
che si concludeva così:
Cittadini di Seveso! Per evitare confusione di notizie vi terremo
periodicamente informati con manifesti. La Regione, infatti, è
l´unica autorità che può dirvi come stanno realmente
le cose. Mentre noi contiamo sul vostro senso di responsabilità,
voi potete contare sempre sul nostro impegno e sulla nostra solidarietà.
Nel mese di dicembre del 1976 si rinnovò la protesta della
popolazione contro l´inerzia della Regione e della Provincia
con un nuovo blocco della superstrada Milano-Meda. I motivi della
protesta ricalcarono quelli della precedente manifestazione di ottobre
e si concentrarono contro l´installazione del forno inceneritore
e a favore della riapertura del corso Isonzo.
Questa ennesima protesta dei cittadini di Seveso comportò
una durissima presa di posizione di Golfari che dichiarò
al "Corriere della Sera":
In questa faccenda della diossina, finora siamo andati alla ricerca
del consenso, ci siamo sforzati di stimolare la partecipazione.
Fin troppo. Adesso però bisogna prendere decisioni definitive
con o senza il consenso della popolazione. Tutta questa storia è
ormai avvelenata dall´ideologia e l´ideologia con la
diossina ha poco a che vedere. Adesso basta: i programmi sono stati
definiti e non intendo più riaprirli. Farò eseguire
la bonifica anche a costo di ricorrere alla forza pubblica.
Più oltre Golfari rilevò poi che dai manifesti di
protesta della gente di Seveso era scomparso il nome dell´ICMESA
e dalla Givaudan e appariva sempre solo la Regione, "con strane
convergenze, come per esempio, l´acquisto delle case contaminate
trattato direttamente dalla Givaudan con gli avvocati dei sindacati".
Concluse Golfari:
La disgrazia di Seveso è un evento pubblico, non può
essere privatizzato. La Givaudan deve venire qui, in Regione e trattare
con noi, accordarsi con noi. Certamente tutta la questione è
complessa i problemi e le direzioni in cui muoversi sono mille.
Però bisogna stare bene attenti e non lasciare spazio per
le speculazioni. E in questa faccenda ci sono linee traverse, interessi
disparati che si intrecciano, confondono i giochi e che non so neanch´io
dove vadano a parare.
Sembra quasi che siamo stati Rivolta ed io ad uccidere le mucche
del seminario, che hanno avuto il fegato spaccato dalla diossina,
o a bruciare la faccia dei bambini ricoverati. Sembra quasi che
la diossina l´abbia sparsa la Regione Lombardia e non l´ICMESA.
Ora io non so se la Givaudan abbia avuto una parte attiva in questo
gioco delle tre tavolette. Di certo so che la Givaudan intasca gli
utili della scemenza altrui.
1977. La sfiducia aumenta.
Il 17 gennaio 1977 la Regione Lombardia approvò la legge
n. 2 che, secondo quanto prescritto dalla disposizione che aveva
convertito il decreto legge dell´agosto 1976, definì
i programmi operativi di intervento da sottoporre all´approvazione
del Consiglio Regionale e introdusse procedure semplificate in materia
di urbanistica, contabilità, assunzione di personale e controllo
sugli atti. Ciascun programma operativo doveva determinare gli obiettivi
specifici da raggiungere, le competenze dei vari enti rispetto agli
interventi da effettuare nell´ambito del programma operativo
stesso, i tempi di attuazione di ciascun intervento e l´ammontare
delle somme destinate ai singoli interventi.
Mentre la struttura regionale si stava organizzando anche a livello
legislativo, nei primi mesi del 1977 le autorità dovettero
affrontare il problema degli ingressi abusivi nella zona inquinata
da parte degli sfollati, situazione che si ripeteva ormai da molti
mesi. Tra il settembre del 1976 e il febbraio del 1977 gli organi
preposti al controllo della Zona "A" denunciarono infatti
più volte la presenza di persone non autorizzate. In un rapporto
della polizia municipale di Seveso datato 1° ottobre 1976 si
segnalava che:
la sig.ra O. Lina era intenta a stirare nella propria abitazione,
asserendo che erano diversi giorni che dimorava giorno e notte,
non ottemperando in tal modo, all´ordinanza emessa dal Sindaco
di Seveso in data 30/7/76 portante il n. 51 in riferimento al noto
evento tossico. Dopo innumerevoli inviti veniva convinta a lasciare
la dimora senza asportare da essa nessun effetto ivi depositato
quanto meno effetti personali, in quanto all´atto dell´ispezione
la O. non era protetta da nessun indumento idoneo anti-tossico e
sprovvista di regolare permesso che viene rilasciato dalle competenti
Autorità. [
]
Si fa presente inoltre che diverse abitazioni sono aperte e si presume
che siano occupate notte e giorno dagli stessi proprietari.
L´entrata abusiva nella Zona "A" era favorita anche
dallo stato in cui si trovavano "le recinzioni in filo spinato
in gran parte divelte se non addirittura mancanti". Per prevenire
questo fenomeno il 15 febbraio 1977 il prefetto affidò all´esercito
la vigilanza esterna dell´area maggiormente inquinata. Il
compito fu assegnato al comando del 3° corpo d´armata,
che assunse la completa responsabilità e la direzione della
vigilanza della zona insieme ai carabinieri. Questa decisione fu
adottata su richiesta di Golfari "ritenuta l´assoluta
necessità di vietare qualsiasi abusivo ingresso nella zona
anzidetta di persone e autoveicoli" che potevano "diffondere
all´esterno gli effetti nocivi delle materie tossiche".
Il ritorno dell´esercito a Seveso e a Meda per sorvegliare
la zona inquinata contribuì ad aumentare la tensione, già
alta nella zona a causa dello stallo delle operazioni di bonifica,
dell´aumento dei casi di cloracne riscontrati nei bambini
e nelle bambine e con la rilevazione della presenza di diossina
nelle scuole. Come sottolineò il "Corriere della Sera"
l´11 febbraio 1977:
Oltre duecento bambini colpiti da cloracne secondo i dati ufficiali
delle prime visite in alcune scuole elementari. Tremilasettecentocinquanta
metri cubi di materiale organico contaminato e in putrefazione in
attesa di essere bruciato in un inceneritore che è ancora
nel mondo delle intenzioni. Un esercito di topi richiamato dai rifiuti
e tanta paura, tanto disorientamento in una popolazione colpita
da un male a cui finora nessuno ha potuto o voluto dare una dimensione.
Questo è il bilancio che si deve tirare a sette mesi esatti
dall´incidente di Seveso. Restano fuori dal conto le polemiche,
tante e le buone intenzioni, i progetti troppe volte annunciati
e non ancora realizzati.
Anche il sindaco di Seveso, Francesco Rocca, fece rilevare la difficoltà
del momento:
"Sette mesi vissuti tutti con angoscia, con paura, con la
forza dei nervi che ti tiene su e questo, sicuramente, è
il momento più brutto. Cosa faccio, adesso? Vado via? Mi
sembrerebbe una diserzione. Eppure certe volte la tentazione è
forte. La gente è in subbuglio. C´è panico dove
prima c´era l´indifferenza, il menefreghismo. C´è
anche rabbia. Una grossa, grossissima sfiducia nelle istituzioni.
Pochi giorni dopo il 17 febbraio 1977, in una lunga intervista
a Giampaolo Pansa sempre per il "Corriere della Sera",
Rocca ribadì tutta la sua difficoltà nella gestione
di una vicenda così complessa, dove i diversi "attori"
in campo cercavano di "difendere" le loro ragioni con
la forza del loro peso, come la Roche che era "una forza potente"
ancora attiva a Seveso. Rocca sospettò, pur senza averne
le prove, che le tendenze minimizzatrici sugli effetti della diossina
provenissero proprio dalla Givaudan. Il sindaco di Seveso rispose
anche in merito al comportamento delle istituzioni evidenziando
che queste erano fatte da persone ed erano state sottoposte per
mesi ad uno "stress terribile". Rocca confidò comunque
sulla tenuta delle istituzioni, sottolineando però la necessità
della creazione a Seveso di un "centro operativo-organizzativo"
che coordinasse tutto il lavoro e affrontasse i molteplici aspetti
del problema.
Bisogna bonificare: nasce l'Ufficio Speciale per Seveso.
In ambito istituzionale, il 2 giugno 1977, il Consiglio Regionale
approvò i 5 programmi operativi per la bonifica del territorio.
Il programma operativo numero 1 fu relativo agli accertamenti e
ai controlli sull´inquinamento del terreno, delle acque e
della vegetazione ed agli interventi di decontaminazione e di bonifica
del terreno e degli stabili, "anche per prevenire la diffusione
dell´inquinamento". Il numero 2 interessò gli
accertamenti, i controlli, l´assistenza sanitaria e la tutela
della salute pubblica nella zona colpita. Esso comprendeva anche
gli accertamenti, i controlli e gli interventi nel campo della profilassi
medico-veterinaria e dell´assistenza zooiatrica. Il numero
3 invece si doveva occupare di assistenza sociale e scolastica,
comprendendo pure "la provvista di alloggi alle popolazioni
sfollate". Il numero 4 comprese il ripristino o la ricostruzione
delle strutture civili e delle strutture abitative non recuperabili
e la "realizzazione delle opere necessarie per il ristabilimento
delle condizioni di vita adeguate alla particolare situazione della
zona colpita e delle capacità produttive dei terreni agricoli
interessati". A questo proposito bisogna aggiungere che fino
dal febbraio precedente il presidente della Giunta Regionale si
era impegnato a dare avvio immediato alle procedure per l´esproprio
e la costruzione delle nuove case che avrebbero dovuto essere pronte
entro e non oltre il 30 giugno 1979. Golfari rimarcò inoltre
che gli oneri inerenti la costruzione delle nuove abitazioni sarebbero
stati attribuiti completamente alla Roche-Givaudan. Il programma
numero 5 doveva infine coordinare gli interventi a favore di imprese,
singole o associate, agricole, artigiane, turistiche ed alberghiere,
industriali e commerciali, che avevano subìto danni "in
conseguenza dell´inquinamento da sostanze tossiche".
Insieme all´approvazione dei 5 programmi operativi la Regione
determinò anche le relative previsioni di spesa che ammontarono
a complessive lire 121.635.866.606.
La gestione e l´attuazione dei programmi fu demandata ad un
Ufficio Speciale, immediatamente affidato all´avvocato Antonio
Spallino che, in qualità di Incaricato Speciale ebbe tutti
i poteri che "in forza delle leggi vigenti" competevano
"al presidente della Giunta Regionale o alla Giunta stessa,
per l´attuazione dei programmi operativi". Spallino,
sindaco democristiano di Como da sette anni, fu scelto, come spiegò
Golfari, proprio perché sindaco di una città, cioè
abituato a trattare con la gente. "La scelta di un prefetto,
aggiunse Golfari, o anche di un manager per la carica di commissario
avrebbe potuto presentarsi come la fine di quella politica del consenso
che abbiamo sempre seguito per la bonifica a Seveso". L´avvocato
Spallino fu sostituito, nel 1979, dal senatore Luigi Noè.
A livello centrale il 16 giugno 1977 il Parlamento approvò
l´istituzione della Commissione parlamentare d´inchiesta
sulla fuga delle sostanze tossiche dall´ICMESA che ebbe il
compito di accertare le attività della fabbrica di Meda,
le responsabilità amministrative relative all´insediamento
industriale e le conseguenze dell´incidente sulla salute dei
cittadini, sull´ambiente, sul territorio e sull´economia
della zona. La Commissione, composta da 15 deputati e da 15 senatori,
avrebbe dovuto indicare anche i provvedimenti da adottare "per
indennizzare i cittadini danneggiati dall´incidente del 10
luglio 1976 e per ottenere dai responsabili dello stesso il risarcimento
dei danni". A maggio del 1977 inoltre Rocca e Malgrati prorogarono
il divieto di coltivazione, allevamento e consumo di prodotti agricoli
e animali nelle Zone "B" e "di Rispetto". Per
il Comune di Seveso la proroga fu a "tempo indeterminato",
mentre per Meda, il sindaco limitò il divieto al 31 dicembre
1977.
Le transazioni economiche.
Il 25 marzo 1980, dopo una trattativa iniziata da Golfari e durata
oltre un anno, il sottosegretario agli interni Bruno Kessler e il
nuovo presidente della Giunta Regionale Guzzetti annunciarono di
aver raggiunto un accordo con la Givaudan per far sì che
la società di Vernier-Ginevra si assumesse l´onere
di pagare la somma di Lire 103 miliardi e 634 milioni per il "disastro
di Seveso". Kessler parlò di "prova di coraggio"
illustrando il senso dell´iniziativa, mentre Guzzetti aggiunse
che in pratica si era evitato "un contenzioso di anni e anni"
e si era "spuntato un risarcimento praticamente pari alle stime
del danno". Gli avvocati Antonini e Palmieri, due dei legali
del Collegio della Regione, ricordarono che era la prima volta che
si riusciva a far accettare ad una multinazionale di pagare per
un danno procurato da una "azienda figlia". La transazione
prevedeva nello specifico un rimborso di 7 miliardi e mezzo allo
Stato e 40 miliardi e mezzo alla Regione per le spese di bonifica
sostenute nei diversi anni, mentre 47 furono i miliardi a carico
della Givaudan per i programmi di bonifica e 23 quelli destinati
alla sperimentazione. Guzzetti affermò anche che "per
trarre insegnamento dal disastro e dalle sue conseguenze" fu
decisa la costituzione di una Fondazione per ricerche ecologiche,
alla cui costituzione la Givaudan concorse con il versamento della
somma di mezzo miliardo. La Givaudan si impegnò inoltre a
conferire alla futura Fondazione gli immobili acquistati (o che
stava per acquistare) all´interno della Zona "A".
La transazione escludeva i danni imprevedibili che fossero emersi
successivamente e i danni subiti dai privati che la multinazionale
elvetica continuò a liquidare tramite il proprio ufficio
di Milano. Guzzetti negò che la Regione avesse dovuto cedere
qualcosa alla Givaudan anche se i danni calcolati dall´Ente
regionale ammontavano a 119 miliardi, perché, per esempio,
le fabbriche acquistate per far continuare il lavoro alle imprese,
una volta bonificato Seveso, restavano comunque parte del patrimonio
degli enti. "Abbiamo voluto in tal modo, concluse Guazzetti,
rovesciare in positivo una delle più grandi disgrazie ecologiche
della terra e far partire da Seveso un messaggio di speranza perché
l´uomo possa in futuro meglio controllare le forze della scienza
che egli va trovando".
La transazione ovviamente fece venire meno il procedimento giudiziario
intentato dalla Regione contro l´industria chimica di Meda
che era agganciato al procedimento penale avviato dalla Procura
della repubblica di Monza all´indomani del disastro. Gli avvocati
della Regione sottolinearono, per rispondere alle critiche secondo
cui l´accordo avrebbe in qualche modo favorito la Givaudan
evitandole un processo, che, se si fosse atteso il procedimento
giudiziario, si sarebbe parlato di risarcimento dopo molti anni
e con molta difficoltà si sarebbero ottenuti 103 miliardi.
Il giorno seguente, nel dibattito sulla transazione che si tenne
in Consiglio Regionale, Guzzetti ricordò che era la prima
volta che si riusciva ad ottenere un riconoscimento sostanziale
di responsabilità e che, nell´ambito del procedimento
giudiziario in corso, con la firma della transazione, la Givaudan
ammetteva le proprie responsabilità, assumendosi l´onere
di coprire i danni causati dall´ICMESA, il cui capitale sociale
di un miliardo era del tutto inadeguato rispetto all´entità
dei danni provocati.
Il 30 dicembre 1981 il sindaco di Seveso Giuseppe Cassina, di fronte
alle argomentazioni presentate davanti al tribunale di Basilea dalla
Hoffman-La Roche che sottolineavano una indisponibilità a
transare da parte del Comune di Seveso, replicò alla multinazionale
elvetica:
"il punto fondamentale che ci interessa sottoporVi è
il seguente: noi eravamo e siamo stati sempre pienamente disposti
ad addivenire a delle intese transattive, previo naturalmente i
necessari contatti con Voi. In proposito tutti i nostri interventi
sono rimasti a tutt´oggi infruttuosi. [
] Vi ripetiamo
ancora una volta la nostra precedente ed attuale disponibilità
a prendere con Voi i contatti necessari per una transazione".
Il 9 febbraio 1982 l´Hoffman-La Roche, a seguito della nota
di Cassina del 30 dicembre 1981, confermò la propria disponibilità
a giungere ad un accordo:
"D´altra parte, come risulta dalla corrispondenza scambiata
tra i nostri legali, e dalle memorie depositate davanti i tribunali,
fin dall´inizio della vertenza non abbiamo mai rifiutato eventuali
trattative, pur respingendo decisamente qualsiasi responsabilità
della nostra società in relazione alle conseguenze dell´incidente
verificatosi il 10 luglio 1976".
Il successivo 10 settembre il Consiglio Comunale di Seveso approvò
il verbale d´intesa con cui la Givaudan "pur contestando
la propria legittimazione e responsabilità" si impegnava
a versare l´importo di 15.000.000 milioni di franchi svizzeri
di cui 1.500.000 a titolo di rimborso delle spese di giustizia e
legali.
Come per gli altri enti coinvolti nella vicenda anche il Comune
di Seveso, ad avvenuta definizione dell´atto transattivo,
assicurò la rinuncia a qualsiasi ulteriore richiesta ed azione,
sia in sede penale che in sede civile, salvo richieste per i danni
futuri allora non prevedibili, dei quali si doveva però dimostrare
il nesso di causalità con l´evento.
Nel suo intervento il sindaco Cassina sottolineò l´importanza
della decisione che stava per prendere il Consiglio Comunale perché
tale decisione avrebbe assunto "una sua rilevanza storica",
in quanto originata da un evento che aveva visto la popolazione
sevesina e il territorio "al centro dell´attenzione mondiale,
benché quasi sempre con riflessi non positivi". Dopo
una breve cronistoria degli avvenimenti susseguitisi dal 10 luglio
1976, Cassina sottolineò come non si potevano tralasciare
"le gravi responsabilità" che erano state "causa
di quelle situazioni" che non potevano esimere il Consiglio
"dall´esprimere una ferma condanna dei metodi di gestione
di tali impianti e delle esigenze della produzione" che "in
quel caso" non avevano tenuto "sufficientemente conto
della salvaguardia sia dei lavoratori addetti che delle popolazioni
attorno residenti". Rimaneva la speranza, continuò Cassina,
"che di fronte a drammi umani come quello che si era vissuto",
si potesse "acquistare una nuova gerarchia di valore"
che mettesse al primo posto l´essere umano "in quanto
innanzitutto uomo e non il profitto, l´efficienza, il potere".
Cassina concluse difendendo la bontà della scelta poiché
difficilmente si sarebbe potuto ottenere nelle sedi giudiziarie
un riconoscimento di danni maggiore della cifra concordata nella
transazione.
Tre giorni dopo, il 13 settembre, il sindaco di Seveso e il presidente
del Consiglio d´amministrazione della Givaudan Jean Jacques
de Pury firmarono a Losanna la transazione.
Nel giro di tre anni dunque la Roche, attraverso la Givaudan, chiuse
i contenziosi aperti con tutte le autorità italiane interessate
dalla fuoriuscita della nube tossica e, nel contempo, tramite il
proprio ufficio insediato a Milano, liquidò oltre 7000 pratiche
con i pagamenti effettuati direttamente ai privati, con un onere
complessivo a carico della multinazionale di Basilea di oltre 200
miliardi di lire.
1983. Nasce il Bosco delle Querce.
Il 2 giugno 1977 il Consiglio Regionale della Lombardia approvò
i 5 programmi di intervento per bonificare il territorio inquinato.
La realizzazione fu affidata all´Ufficio Speciale per Seveso.
Abbandonata l´idea di costruire un forno inceneritore per
eliminare il materiale inquinato, tra il 1981 e il 1984, furono
costruite due vasche impermeabilizzate dove depositare il materiale
contaminato. La capacità della vasca di Seveso è di
200.000 m³, mentre la capacità di quella di Meda è
di 80.000 m³.
Per la messa in sicurezza del materiale contaminato è stato
adottato un sistema di quattro barriere successive, che separano
l´inquinante dall´ambiente esterno. Le vasche sono dotate
di una serie di strumenti di controllo che verificano eventuali
perdite, garantendo la salvaguardia del luogo. Gran parte del materiale
inquinato è rappresentato dal terreno di superficie che fu
tolto dall´intero territorio della Zona "A" fino
ad una profondità di 46 centimetri. Sono contenuti, all´interno
della vasca di Seveso, i resti delle case, gli oggetti personali,
gli animali morti o successivamente abbattuti a seguito dell´incidente
(furono più di 80.000 gli animali morti o abbattuti) e parte
delle attrezzature utilizzate per la bonifica. La terra che oggi
costituisce lo strato superficiale del bosco proviene da altre zone
della Lombardia.
Nel 1983 si decise di progettare, in quella che era la Zona "A"
("A1"-"A5"), un parco, il futuro Bosco delle
Querce. I lavori ambientali e forestali iniziarono nel 1984 e terminarono
nel 1986. Alla fine del 1986 la cura del parco fu affidata all´Azienda
Regionale delle Foreste (ARF). Inizialmente vennero messe a dimora
5.000 piante arboree e piantati 6.000 arbusti. Grazie agli ulteriori
interventi e alla cura dell´Azienda Regionale Foreste alla
fine del 1998 il parco comprendeva 21.753 piante arboree e 23.898
piante arbustive ossia un patrimonio quadruplo rispetto all´impianto
iniziale ereditato dall´Ufficio Speciale per Seveso.
La scelta di realizzare un bosco dopo l´asportazione del terreno
si deve anche ai movimenti popolari che sorsero a Seveso dopo l´incidente
e che si opposero con forza alla decisione iniziale della Regione
Lombardia di costruire un forno inceneritore per bruciare tutto
il materiale inquinato.
(tratto da "Seveso e l´Icmesa dall´insediamento
della fabbrica al "dramma" del 10 luglio 1976" tesi
di Massimiliano Fratter corso di laurea in Storia. Anno Accademico
1998/99)
tratto da www.boscodellequerce.it
zona A" molto inquinata, "zona" B
poco inquinata, "zona R" di rispetto
Io non so come funziona uno stabilimento chimico, ma se provo ad
immaginarlo mi sembra di vedere centinaia di metri di tubature collegate
a silos giganteschi dove si miscelano sostanze chimiche. A volte
è necessario combinare e far legare le sostanze tra loro
per ottenere il prodotto finito, ed il prodotto finito può
essere qualsiasi cosa: saponi, profumi, diserbanti, medicinali,
plastiche, vernici, insetticidi.. In questo impianto, così
come la vedo io nella mia fantasia, si aggirano operai, tecnici,
e chimici ricoperti da capo a piedi di tute bianche e maschere protettive
per evitare pericolose contaminazioni Ed è questo, quello
che immagino io. Ma già il fatto di vedere le persone racchiuse
in quegli scafandri ermetici m'inquieta. Il pensiero che uno di
quei prodotti possa fuoriuscire da quei tubi o dai quei silos per
un qualsiasi motivo o accidente mi terrorizza. Penso: sicuramente
ci saranno centinaia di sistemi di sicurezza per far si che ciò
non accada. Ma ciò non mi tranquillizza affatto perchè
mentre proseguo nella mia immaginaria visita in questo impianto
immaginario, mi accorgo che c'è poco personale a controllare.
Ma è luglio ed è sabato. E mi accorgo anche che proprio
alla base di un di quei silos c'è un manometro la cui lancetta
sta salendo verso il quadrante rosso e nessuno sembra accorgersene.
Il silos si sta surriscaldando e comincia a vibrare forte. So che
l'aumento della temperatura è pericolosissimo. ma penso:
ci sono i sistemi di sicurezza, tra un po' tutto tornerà
normale. Ma così non è perchè il sistema di
sicurezza pare non abbia funzionato quel giorno a Seveso
Seveso 10 luglio 1976 ore 12.37
Nello stabilimento chimico dell' ICMESA una valvola di sicurezza
del reattore A-101 esplode provocando la fuoriuscita di alcuni chili
di diossina nebulizzata. (la quantità esatta non è
quantificabile, qualcuno dice 10-12 chili, altri di appena un paio).
Il vento disperde la nube tossica verso est; nella Brianza. Il giorno
dopo, domenica 11 luglio, nel pomeriggio, due tecnici dell'ICMESA
si recano dal sindaco di Seveso, Emilio Rocca, per metterlo al corrente
di ciò che è accaduto nello stabilimento e rassicurandolo
che la situazione non desta preoccupazioni perché è
già tutto sotto controllo. Dopo 4 giorni dall'incidente inizia
la moria degli animali, muoiono galline, uccelli, conigli. Le foglie
degli alberi ingialliscono e cadono, e gli alberi in breve tempo
muoiono come tutte le altre piante. Nell'area interessata vivono
circa 100.000 persone. E solo dopo pochi giorni si verificano i
primi casi d'intossicazione nella popolazione. Il giorno 15 il sindaco
emana un ordinanza di emergenza: divieto di toccare la terra, gli
ortaggi, l'erba e di consumare frutta e verdure, animali da cortile,
di esporsi all'aria aperta. Si consiglia un'accurata igiene della
persona e dell'abbigliamento. Ci sono i primi ricoveri in ospedale
e gli operai dell'ICMESA si rifiutano di continuare a lavorare.
Soltanto il 17 luglio appaiono i primi articoli sul "Giorno"
e sul "Corriere della Sera". L'accaduto diviene di dominio
pubblico. Il 18 luglio parte un indagine dei carabinieri del comune
di Meda ed il pretore decreta la chiusura dello stabilimento. Si
procede all'arresto del direttore e del vicedirettore della fabbrica
per disastro colposo. Ma ancora il 23 luglio dalla prefettura non
viene ancora presa nessuna decisione su come far fronte all'emergenza.
I casi d'intossicazione aumentano, i più colpiti sono i bambini.
Si da nome ad una malattia finora quasi sconosciuta: la Cloracne.
La cloracne è il sintomo più eclatante dell'esposizione
alla diossina, colpisce la pelle, soprattutto del volto e dei genitali
esterni, se l'esposizione è prolungata si diffonde in tutto
il corpo. Si presenta con comparsa di macchie rosse che evolvono
in bubboni pustolosi giallastri, orribili a vedersi e di difficile
guarigione, e la pelle cade a brandelli. Può essere compromessa
seriamente la funzionalità epatica. L'inalazione del composto
crea problemi respiratori. Il 23 luglio dopo 13 giorni dall'incidente
la verifica incrociata delle analisi effettuate dalle strutture
sanitarie italiane e dei Laboratori Givaudan dell'ICMESA confermano
una presenza notevole di TCDD nella zona maggiormente colpita dalla
nube tossica. Il 10 agosto una commissione tecnico-scientifica stila
una mappatura della zona contaminata. Si decide di evacuare l'area
circostante l'impianto per circa 15 ettari, e le famiglie residenti
nelle zone più colpite sono invitate ad abbandonare le proprie
abitazioni. Reticolati sono posti per delimitare le zone pericolose.
La commissione classifica il terreno contaminato in 3 zone a seconda
della quantità della diossina presente sul terreno: "zona
A" molto inquinata, "zona" B poco inquinata, "zona
C" di rispetto. Continuano i casi d'intossicazione e aumentano
i ricoveri ospedalieri tra la popolazione di Seveso, Meda, Desio
e Cesano Maderno. Tra la popolazione colpita ci sono parecchie donne
incinte e si diffonde la preoccupazione per gli effetti della contaminazione
sui futuri nascituri. Ma gran parte degli "esperti" tendono
a tranquillizzare tutti sminuendo gli effetti della diossina. Si
fanno migliaia di analisi del sangue e delle urine, ma non si arriva
a capo di nulla. Ulteriori controlli dei terreni fanno estendere
la zona A suddividendola in 7 sotto sezioni. Intanto la televisione
ed i giornali continuano a mostrare filmati e foto di bambini ricoverati
in ospedale con i piccoli volti coperti da estese macchie rosse
e le zone contaminate dove si aggirano uomini in tute bianche sigillate
che raccolgono campioni di terreno e bruciano carcasse di animali.
L'11 ottobre dopo 3 mesi, gli abitanti evacuati dalla zona A rientrano
nei loro terreni e indicono una protesta bloccando la strada Meda-Milano.
Vogliono rientrare nelle loro case e riprendere possesso della loro
vita. Protestano contro il progetto della Provincia e della Regione
di costruire un inceneritore a Seveso. Ritorna l'esercito per controllare
la zona inquinata ed impedirne l'accesso. Sale la tensione e il
malcontento verso le istituzioni che sembrano non voler prendere
provvedimenti adeguati. Si chiede la bonifica dell'area come era
stato promesso e si suggerisce l'asportazione del terreno inquinato
e la collocazione in siti adeguati. Proprio per la tutela degli
abitanti nel 1977 viene istituito l'Ufficio Speciale per Seveso.
ICMESA
Lo stabilimento ICMESA comincia la sua attività nel territorio
del Comune di Meda nel 1947. Lo stabilimento produce prodotti farmaceutici
ed è di proprietà della multinazionale GIVAUDAN. Nel
1963 la ICMESA diventa di proprietà della Hoffman-La Roche.
Da subito iniziarono le proteste degli abitanti della zona e le
denunce per gli effetti che l'impianto aveva sull'eco-sistema della
zona: gas maleodoranti che fuoriuscivano dai camini, l'inquinamento
del torrente Certosa o Tarò. Ma tutte le denunce sugli effetti
nocivi della fabbrica e le varie accuse furono rigettate dai dirigenti
dello stabilimento e non vennero mai presi provvedimenti. Al momento
dell'esplosione del reattore chimico si era già al corrente
tra gli addetti, che con il surriscaldamento dei materiali di lavorazione
si sarebbe formata diossina, ma si sapeva anche, che aumentando
la temperatura i tempi di reazione chimica dei prodotti sarebbe
diminuita (da 5 a 1 ora) e si avrebbe avuto più prodotto
in meno tempo. Gli addetti sapevano che altri incidenti da codesti
impianti, erano avvenuti nel tempo in altre nazioni, e sapevano
anche dei loro effetti catastrofici sull'ambiente. Sapevano anche
che il camino sopra il tetto dell'impianto era privo di abbattitore.
Sapevano che i termometri per controllare la temperatura degli impianti
erano insufficienti a controllare la reazione. Perciò l'incidente
fu provocato dalla omissione delle più elementari norme di
sicurezza per un impianto del genere situato vicino al centro abitato
E nonostante questo "la fabbrica dei profumi" ( così
come la chiamavano gli abitanti del luogo), ha continuato a funzionare
per anni celando la sua pericolosità anche agli stessi operai
che vi lavoravano.
La Diossina
"Diossina è un nome generico che indica vari composti
tossici; il più noto, indicato con la sigla TCDD, si forma
come sottoprodotto nella preparazione del triclorofenolo, sostanza
utile a produrre erbicidi e battericidi."
"La diossina è una sostanza altamente tossica in grado
di provocare seri danni al cuore, ai reni, al fegato, allo stomaco
e al sistema linfatico".
Il composto si deposita sui terreni è non assolutamente
biodegradabile né l'intaccano i microrganismi presenti nel
terreno. Penetra nell'organismo attraverso la respirazione, per
contatto con l'assunzione di cibo, soprattutto carne, pesce e latticini.
Nei casi di esposizione a concentrazioni e poiché si deposita
nei grassi, è soggetta ad accumulo biologico. Nei topi da
laboratorio provoca tumori, disturbi al sistema nervoso, anomalie
genetiche . Ancora non è stato accertato quali possano essere
gli effetti a lungo termine sull'uomo. Gli abitanti di Seveso e
zone limitrofe sono ancora oggi soggetti da laboratorio per lo studio
degli effetti della diossina.
La diossina non uccise nessun essere umano al momento, ma distrusse
l'equilibrio eco-biologico di una vasta aera di territorio e decretò
la morte civile di un'intera popolazione. Si sospetta che a 30 anni
di distanza il terreno sia ancora intriso di diossina nonostante
lo stabilimento chimico sia stato interrato ed al suo posto ci sia
ora il " Bosco delle Querce" impiantato in seguito
nella zona, con flora e fauna importata a segnare con un itinerario
della memoria un evento da non dimenticare.
Il disastro provocò una destabilizzazione socio-economica
di tutta l'area con enorme disagio per gli abitanti che dovettero
abbandonare la loro terra, le loro case, il loro lavoro, gli animali.
Rinunciare a tutto quello che avevano costruito o progettato per
il loro presente e per il futuro. Non si coltivò più.
Molte donne in gravidanza in quel periodo preferirono abortire
e le coppie smisero di fare figli. Famiglie intere furono sradicate
delle proprie radici e subirono, nei trasferimenti coatti, anche
l'umiliazione di sentirsi emarginati dall'ignoranza della gente
che non sapeva cos'era la diossina, e vedeva in loro un pericolo
per la propria salute. 80.000 gli animali morti o abbattuti, 158
gli operai esposti alla contaminazione. Un numero imprecisato di
bambini rimarranno sfigurati dalla cloracne e porteranno sulla propria
pelle gli effetti di questa micidiale sostanza con problemi psicologici
che mineranno la loro vita. La responsabilità ricadde in
sede processuale sui dirigenti dell'impianto che vennero condannati
nel 1983 per disastro colposo e lesioni. I 200 milioni in vecchie
lire pagate dalla multinazionale svizzera per il risarcimento furono
usati per la bonifica dei terreni più contaminati come la
zona A di Seveso dove tutto era stato raso al suolo perché
irrecuperabile. I danni materiali e morali di questo disastro ecologico
provocato dall'uomo restano incalcolabili.
Discariche speciali
Tutti i materiali contaminati asportati vengono depositate in due
discariche speciali: la vasca A, a sud di Seveso, dove finiscono
le macerie dello stabilimento ICMESA, tutti i terreni oggetto della
scarifica e i materiali usati per la bonifica del territorio di
Seveso per un volume di circa 200.000 m3. Nell'altra vasca la B,
posta più a nord nel Comune di Meda finiranno tutti i materiali
contaminati della zona nord e i fanghi del depuratore di Seveso
per un volume di circa 80.000m3.
"In seguito all'incidente di Seveso ed altri dovuti all'incuria
dell'uomo in proposito di sistemi di sicurezza di impianti chimici
e consimili, la Comunità Europea emanò nel 1982 la
direttiva n° 82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti
connessi con determinate attività industriali.
La direttiva prevedeva determinati obblighi amministrativi e sostanziali
riguardo all'atteggiamento da seguire nella gestione dell'esercizio
di attività ritenute pericolose sulla base della tipologia
di pericolosità dei materiali, e del quantitativo detenuto.
La direttiva viene recepita dall'Italia 6 anni più tardi
con il DPR 175/88."
articolo di Marina Rossi tratto da http://www.pagine70.com
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